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Scrivi un commento al testo proposto da Cosimina Viscido
La discesa di Cristo all Inferno

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Finito il patimento, la sua essenza si separò dall'orrido
corpo del suo sentire. In alto. Lo lasciò.
E la tenebra, sola, ebbe spavento
e scagliò pipistrelli contro la spoglia livida-
nel loro sciame svolazzante a sera
freme ancora l'orrore di cozzare
contro il tormento raggelato. Cupa aria senza pace
si avvilì sul cadavere e una torpida inerzia
colse i forti animali veglianti nella notte.
Libero dalla spoglia pensò forse il suo spirito librarsi
sul paesaggio, senza agire. Chè ancora gli bastava
l'evento del suo patire. Mite gli appariva
la presenza notturna delle cose e su di esse
si espandeva come uno spazio triste.
Ma la terra, essiccata e assetata nelle sue piaghe,
ma la terra si fendè e ruppero voci dall'abisso.
Egli, conoscitore dei martìri, udì l'inferno urlare
verso di lui, bramando prendere coscienza del suo patire
ormai compiuto, perchè dalla fine della sua pena (infinita)
traesse presagio e terrore la pena perenne degli inferi.
E nell'abisso precipitò lo Spirito con tutto
il peso del suo sfinimento, procedè in fretta
seguito dagli sguardi stupefatti di ombre erranti,
levò lo sguardo verso Adamo, un attimo,
rapido si calò, sparve e perse nel ripido
di più selvagge voragini. D'un tratto (più alto, più alto)
sopra il centro
dei loro urli schiumanti, sulla lunga torre
del suo soffrire si sporse: senza fiato,
in piedi, senza balaustrata, proprietario dei dolori. Tacque.

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