LaRecherche.it
Scrivi un commento
al testo proposto da Cosimina Viscido
|
|||
Finito il patimento, la sua essenza si separò dall'orrido
corpo del suo sentire. In alto. Lo lasciò. E la tenebra, sola, ebbe spavento e scagliò pipistrelli contro la spoglia livida- nel loro sciame svolazzante a sera freme ancora l'orrore di cozzare contro il tormento raggelato. Cupa aria senza pace si avvilì sul cadavere e una torpida inerzia colse i forti animali veglianti nella notte. Libero dalla spoglia pensò forse il suo spirito librarsi sul paesaggio, senza agire. Chè ancora gli bastava l'evento del suo patire. Mite gli appariva la presenza notturna delle cose e su di esse si espandeva come uno spazio triste. Ma la terra, essiccata e assetata nelle sue piaghe, ma la terra si fendè e ruppero voci dall'abisso. Egli, conoscitore dei martìri, udì l'inferno urlare verso di lui, bramando prendere coscienza del suo patire ormai compiuto, perchè dalla fine della sua pena (infinita) traesse presagio e terrore la pena perenne degli inferi. E nell'abisso precipitò lo Spirito con tutto il peso del suo sfinimento, procedè in fretta seguito dagli sguardi stupefatti di ombre erranti, levò lo sguardo verso Adamo, un attimo, rapido si calò, sparve e perse nel ripido di più selvagge voragini. D'un tratto (più alto, più alto) sopra il centro dei loro urli schiumanti, sulla lunga torre del suo soffrire si sporse: senza fiato, in piedi, senza balaustrata, proprietario dei dolori. Tacque. |
|